Giorgio Morandi. Paesaggio. Alberi e montegne (Attorno all'arte, 34), Cagli. ISBN 
							  978-88-7658-245-5.
                              
                              
							   
 
							  
								
								Si ringrazia la direzione della Biblioteca di 
								archeologia e di storia dell’arte di Roma 
								(Palazzo Venezia); Biblioteca Centrale 
								Umanistica dell'Università degli Studi di 
								Urbino; Biblioteca di storia dell’arte 
								dell'Università degli Studi di Urbino; 
								Biblioteca Pasquale Rotondi della Galleria 
								nazionale delle Marche, Urbino; Biblioteca 
								Federiciana, Fano; Pinacoteca civica, Fano; 
								Biblioteca civica Gambalunga, Rimini; Ente 
								Olivieri, Biblioteca e Musei, Pesaro; Biblioteca 
								d’arte dei musei civici, Pesaro. Consultazione 
								dei documenti nell'Archivio della Fondazione 
								Modigliani.
							
							  
								  
Su specifico incarico di ricerca e di 
								  studio ho approfondito l’indagine su di un 
								  dipinto di collezione privata, inedito, al 
								  quale ho dato un nome “Jeune femme 
								  brune (Elvira)”.
L’opera è un olio 
								  realizzato su una tela su supporto di legno 
								  (cm. 70 altezza x cm. 37,5 base) eseguita nel 
								  1918.
Prima di iniziare a descrivere, 
								  motivare e determinare la autenticità del 
								  dipinto vorrei precisare che la difficoltà è 
								  che il soggetto rappresentato è stato da anni 
								  sempre custodito in Svizzera da quando era 
								  stato acquistato a Parigi negli anni ‘60.
								  La mia conclusione è che l’opera è di mano di 
								  Amedeo Modigliani, per la firma posta sulla 
								  tela e dopo le analisi ed i riscontri 
								  effettuati, e può essere datata nel 1918, come 
								  in seguito vedremo attraverso i paragoni 
								  iconologici ed iconografici.
La maggior 
								  parte delle notizie, come in tutte le mie 
								  indagini, sono state rilevate nei testi a 
								  stampa consultando l’Archivio della Fondazione 
								  Modigliani, Parigi; Biblioteca di archeologia 
								  e di storia dell’arte di Roma (Palazzo 
								  Venezia); Biblioteca Centrale Umanistica 
								  dell'Università degli Studi di Urbino; 
								  Biblioteca di Storia dell’arte dell'Università 
								  degli Studi di Urbino Biblioteca Pasquale 
								  Rotondi della Galleria nazionale delle Marche, 
								  Urbino; Biblioteca Federiciana, Fano; 
								  Biblioteca civica Gambalunga, Rimini; Ente 
								  Olivieri, Biblioteca e Musei, Pesaro; 
								  Biblioteca d’arte dei musei civici, Pesaro; 
								  Biblioteca-Archivio Ernesto Paleani, Roma ed 
								  Urbino.
La difficoltà maggiore è stata 
								  quella di superare il problema che hanno avuto 
								  tutte le opere di Modigliani che sono state 
								  esposte alle mostre internazionali, dove 
								  critici e giornalisti hanno dato vita a 
								  discussioni la maggior parte delle volte 
								  “scandalistiche” per aver affrontato il tema 
								  dei falsi – come alla mostra a Genova nel 2017 
								  - con molta leggerezza senza approfondire con 
								  diagnosi di laboratorio la loro autenticità. 
								  In un articolo di Redazione di Artslife.com 
								  del 2 maggio 2022 si legge:
“I Modigliani 
								  della mostra di Genova? Secondo i Ris sono 
								  falsi”. 
Secondo le analisi dei Ris di Roma 
								  diversi pigmenti usati nei dipinti sarebbero 
								  incoerenti con i materiali utilizzati in quel 
								  periodo da Modigliani. Ormai la vicenda ha i 
								  ritmi dei thriller. E l’intervento dei 
								  carabinieri dei Ris potrebbe proiettarla, 
								  nell’immaginario, alle concitate questioni al 
								  centro dell’omonima serie televisiva. Un colpo 
								  di scena dietro l’altro: con l’arte sempre al 
								  centro dell’attenzione. Parliamo di Amedeo 
								  Modigliani, e del processo in corso a Genova 
								  per i venti dipinti attribuiti al grande 
								  artista. Sequestrati nel 2017 mentre erano 
								  esposti in una mostra a Palazzo Ducale. 
								  Truffa, falso e contraffazione di opere: 
								  queste le accuse che vedono coinvolte sei 
								  persone tra cui gli organizzatori della mostra 
								  e i proprietari delle opere. Ora a dire la sua 
								  è stato chiamato appunto il Reparto 
								  Investigazioni Scientifiche: che avrebbe 
								  depositato cartucce a favore dell’accusa. 
								  Secondo il capitano del Ris di Roma Livia 
								  Lombardi, come riporta l’edizione genovese de 
								  “La Repubblica” , dalle analisi emergerebbero 
								  diversi indizi contrari all’autenticità di 
								  molte delle opere in questione. In molti dei 
								  21 quadri sequestrati sarebbe stata 
								  riscontrata la presenza di bianco di titanio, 
								  pigmento mai identificato negli strati 
								  pittorici di opere certamente originali di 
								  Modì. E ci sarebbero altri “pigmenti non 
								  coerenti con il periodo storico nel quale 
								  l’opera in esame dovrebbe essere stata 
								  realizzata”, come un tipo di rosso e un tipo 
								  di blu. Sospetti alimenterebbero anche alcuni 
								  residui di carta incollata lungo i bordi di un 
								  dipinto. Per la cronaca, le difese hanno 
								  obbiettato circa la tecnica usata per 
								  analizzare i dipinti, la spettroscopia Raman, 
								  che non permette di ripetere l’esame nello 
								  stesso identico modo. Si apre una strada per 
								  inficiare le analisi? La risposta alla 
								  prossima puntata…”.
Ma vorrei, avendo un 
								  laboratorio di diagnosi sulle opere d’arte, 
								  esprimere una mia opinione sull’utilizzo del 
								  bianco di titanio.
Tipo: Pigmento 
								  inorganico minerale sintetico
Composizione: 
								  Biossido di titanio, solfato di calcio (gesso) 
								  e solfato di bario. Formula: TiO2 + CaSO4 + 
								  BaSO4. Coprente: 4/5.
Il bianco di titanio 
								  è un pigmento inorganico minerale sintetico. 
								  Viene ottenuto dall’ilmenite per estrazione 
								  del titanio, e dalla successiva 
								  neutralizzazione e calcinazione. È usato 
								  principalmente dal XX° secolo, e presenta 
								  un’alta stabilità a luce, temperatura (ha una 
								  resistenza termica di 200°C) e umidità. È 
								  solubile in acqua e la sua asciugatura è 
								  lenta. Una proprietà di questo pigmento da 
								  tenere a mente è la sua tendenza a indurire 
								  rapidamente e a volte a “sfarinare”, ossia una 
								  volta asciutto perdere polvere in alcune zone, 
								  nonostante sia stato diluito con l’olio. Per 
								  questo motivo è consigliato mischiarlo con il 
								  bianco di zinco, che oltretutto contrasta il 
								  naturale ingiallimento nel tempo del bianco di 
								  titanio, aiutandolo così a mantenere la tinta 
								  bianca. La maggior parte dei colori ad olio 
								  prefabbricati venduti in tubetto che portano 
								  il nome di "bianco di titanio", presentano in 
								  effetti una percentuale di bianco di zinco. 
								  Una caratteristica particolarmente positiva è 
								  che pur essendo un bianco ha un potere 
								  coprente molto alto, e rimane opaco. E’ molto 
								  colorante, ha bisogno di una medio-bassa 
								  quantità di olio per formare una pasta che si 
								  presenta fluida con qualche minuscolo granello 
								  di pigmento non disciolto. Rispetto al bianco 
								  di zinco il titanio è più colorante, e 
								  mischiato con altri colori tende a schiarirli 
								  molto e opacizzarli.
Il bianco di titanio è 
								  stato inventato da Auguste J. Rossi laureatosi 
								  all'Ecole Centrale de Paris, Rossi si trasferì 
								  in America e divenne consulente chimico della 
								  Titanium Alloy Manufacturing Company, a lui si 
								  devono moltissimi brevetti tra cui quelli sul 
								  Titanio, sul ossido di Titanio e Bianco di 
								  Titanio, i primi brevetti risalgono già al 
								  1898, ma l’uso di bianco di titanio nei 
								  dipinti è antecedente al suo brevetto, è stato 
								  scoperto l’uso del bianco di titanio nel 
								  dipinto di John Singer Sargent - "Caffè 
								  Orientale sulla Riva degli Schiavoni" – olio 
								  su tela, 1882 . Spesso il prodotto commerciale 
								  è addizionato di solfato di calcio, e/o di 
								  solfato di bario e proviene da pigmento di 
								  origine inorganica. I suoi primi utilizzi 
								  commerciali risalgono circa al 1918.
Penso 
								  che dovrebbero essere verificate tutte le 
								  opere a partire dal 1882 e forse anni prima 
								  essendo nei laboratori degli artisti una 
								  fucina di ricerche sui pigmenti. Questo ho 
								  fatto nella nostra opera dove non solo dalle 
								  pennellate e pigmenti si ha la sua 
								  autenticità, ma da tutta la documentazione 
								  originale che è depositata nell’Archivio della 
								  Fondazione Modigliani a Parigi, che ho 
								  riprodotto in originale consegnatami dalla 
								  proprietà dell’opera.
Poi l’acquisto fatto 
								  da parte della proprietà a Parigi negli anni 
								  ’60 mi fa ricordare lo studio che ho 
								  affrontato su Durand-Ruel. 
Jean Durand e 
								  Marie Ruel possedevano un negozio a Parigi 
								  dalla fine del 1700, dove venivano esposti 
								  disegni, tra cui quelli di Eugène Delacroix. 
								  Jean Durand si occupava della vendita. Il loro 
								  negozio diventò rapidamente un punto di 
								  incontro per artisti e collezionisti, 
								  trasformandosi poi in una vera e propria 
								  galleria d'arte. Fu il primo a credere nelle 
								  opere degli impressionisti che all’epoca erano 
								  screditate dall'arte accademica dai pittori 
								  che uscivano dall’Accademia.
Il Jean Durand 
								  citato è il padre di Paul Durand Ruel (Parigi, 
								  31 ottobre 1831 – Parigi, 5 febbraio 1922) che 
								  Lorenzo Pacini scrive: «Nei primi anni 
								  Settanta dell'Ottocento, Paul Durand aveva 
								  iniziato con i pittori della cosiddetta Scuola 
								  di Barbizon, i quali rispondevano al gusto 
								  degli acquirenti del tempo, ma presto si 
								  accorse dell'eccezionalità d'alcuni giovani 
								  artisti, convinti che non si dovesse 
								  rappresentare solo la natura nella sua realtà, 
								  ma piuttosto cogliere l'attimo del particolare 
								  momento in cui questa è osservata, con tutti i 
								  cambiamenti, anche drammatici, provocati 
								  dall'atmosfera, i colori, la luce. Avevano in 
								  comune soltanto l'essere stati rifiutati dai 
								  Salon Parigini e, quindi, dai borghesi 
								  acquirenti; Durand-Ruel li trasformò in un 
								  gruppo. Tra il 1891 e il 1922, Durand comprò 
								  circa 12 mila opere di Monet, Manet, Pissarro, 
								  Degas, Renoir, Mary Cassat ecc. e per lunghi 
								  anni è stato il solo a farlo. Di lui disse 
								  Monet: «senza Durand saremmo morti di fame 
								  tutti noi impressionisti, gli dobbiamo tutto».
								  Nato a Parigi nel 1831, intraprese la carriera 
								  di gallerista grazie ai genitori, ereditando 
								  un negozio di antiquariato che con il tempo 
								  divenne un punto d’incontro per artisti e 
								  collezionisti. Allo scoppio della guerra 
								  franco-prussiana nel 1870, Durand-Ruel fuggì a 
								  Londra portando con sé le opere con cui diede 
								  vita a una galleria in New Bond Street. Qui 
								  entrò in contatto con il lavoro di Monet, 
								  Pissarro, Sisley, Degas, Renoir, Manet, 
								  organizzando numerose mostre nella sua 
								  galleria londinese, senza però riscontrare 
								  successo, fino a quella memorabile del 1905 
								  alle Grafton Galleries, dove riunì un numero 
								  impressionante di opere: trecento quindici.
								  Ultimamente su “Elvira” è uscito un romanzo di 
								  Carlo Valentini che ho letto con attenzione. 
								  Nella nota dell’autore leggiamo: “Montmartre 
								  con i grand-cafè, la sagoma del Moulin Rouge e 
								  le coppie che si baciano in libertà accolgono 
								  Elvira, fuggita da una vita di stenti e 
								  scandalosa che le avrebbe reso impossibile 
								  rimanere a Marsiglia. Giunta a Parigi 
								  diventerà il simbolo femminile di una stagione 
								  provocatoria, creativa e pulsante: 
								  l’avanguardia. Con i suoi occhi, “di un 
								  marrone impastato col nero, brillanti, 
								  espressivi, provocanti”, riuscirà ad 
								  imbarazzare Amedeo Modigliani, italiano 
								  eccentrico e raffinato, irrequieto, 
								  squattrinato e grande seduttore. Elvira, 
								  “pronta all’avventura, assetata di conoscere, 
								  amante della vita senza pudori, gioiosa anche 
								  nell’avversità”, diventerà la sua musa, la sua 
								  modella e la compagna, condividendo il senso 
								  più profondo di un’aspirazione libertaria.”
								  
Ma la vera storia ho dovuto affrontarla 
								  scientificamente, perché tanto si dice su 
								  Modigliani nato a Livorno dove nacque anche 
								  mia nonna materna Ada Martinelli (Livorno, 25 
								  novembre 1884 - Alessandria (Egitto), 21 
								  aprile 1951) nello stesso periodo di Amedeo, 
								  alla quale ho dedicato questo libro.
							
							
							
                              
                                
								Biblioteche lettura del testo: